domenica 2 giugno 2013

"L'uomo delle luci" - Enrico Nascimbeni - Capitolo primo



L’UOMO DELLE LUCI

Biografia di Giulio Nascimbeni raccontata dal figlio


1° CAPITOLO      
ADDIO GIULIO

Tre le cose che mi sono venute in mente alle nove di sera del 28 gennaio 2008 quando Giulio se ne andò. Che le foglie che cadono lentamente dagli alberi per cedere all’autunno, a volte sono più belle dei fiori. Che pensavo di avere conosciuto ie viaggiato le vie del dolore, invece nemmeno immaginavo cosa fosse. E che una volta i muri di quel salotto dell’antica casa di Sanguinetto avevano una tappezzeria di carta a fiori strappata malamente da mani innovatrici e senza amore. 
Giulio Nascimbeni che per tutto questo libro chiamerò Giulio, se ne andava così: chiedendomi, con quel filo di voce e di ragione che gli erano ancora rimasti, una boccata della mia sigaretta. Diede una tirata, strinse la mia mano, chiuse gli occhi e raggiunse mamma Carla, morta nel 2000 dopo breve malattia .Da quel momento Giulio cominciò a morire con lei.
Cosa ho pensato? Come tutti i figli del mondo che non avrei più sentito la sua voce. Che non avrei più visto la dolcezza dei suoi occhi. Che rimanevo solo. Più ufficialmente parlando, che in una antica casa (la sua e della nostra famiglia) se ne andava uno dei più grandi giornalisti italiani, chiamato”il Signore della Terza Pagina” del Corriere della Sera, l’uomo che senza clamore, senza apparire troppo, sempre a lato della cultura, osservatore silenzioso della bellezza della parola e della poesia diceva addio al mondo, un po’ dimenticato da tutti quelli che a lui dovevano tanto, ai quali aveva dato tanto senza chiedere nulla in cambio.
Me ne sono andato nel mio studio.
Non ero disperato, di più. Ero inseguito da un’orda di ricordi e lacrime. Quei miei deliri che a Giulio non piacevano tanto mi portarono a immaginare che in quel preciso istante tutti i suoi libri si fossero messi a piangere, che un’invisibile polvere li ricoprisse per sempre, che i ragni cominciassero a tessere tele sulla copertina di un volume di Borges o su un qualunque dizionario (Giulio era uno di quelli che il dizionario lo leggeva sempre quando scriveva un articolo perché non aveva mai certezze ma dubbi e curiosità). Ho immaginato anche che non poteva finire così, e che in quel momento aveva finalmente potuto riabbracciare la mamma, in un per sempre ripetuto all’infinito. Tre anni prima, scivolando banalmente nella sua casa di Milano, si era rotto il femore. L’operazione era perfettamente riuscita, il professore che lo operò mi disse che Giulio sarebbe tornato a camminare ma che da quel momento in poi, per una legge che non sta scritta ma purtroppo è vera, sarebbe iniziato il lento degrado della sua mente, e così è andata, fino ad arrivare al punto che la mente di Giulio oramai si era chiusa a qualsiasi contatto esterno. Non parlava più con nessuno. Non mangiava piu’.  Tutte le notti gridava e chiedeva “aiuto”. E tutti i giorni mi chiedeva di lasciarlo morire in pace, perché non sopportava di non poter più leggere, di non poter più scrivere, di non poter più essere un uomo autonomo. Per dirla in breve Giulio si è lasciato morire. Il lento suicidio di un uomo che, se avesse potuto prendere a bastonate la badante georgiana, lo avrebbe fatto.
Gli ultimi articoli che aveva scritto con la sua Olivetti rossa, per il giornaletto del paese,  risalivano a qualche mese prima, l’ultimo era stato su Mario Rigoni Stern e un altro su Carlo Rossi, suo amico di sempre. Carlo lo aveva preceduto solo di qualche mese nel dare un calcio alla vita. Articoli che vennero pubblicamente elogiati: “Lui sì che sa ancora scrivere grandi cose, con grande semplicità”. Ma questa è una biografia sincera e, caro Giulio, io e te sappiamo, a costo di apparire sgradevole, che quegli articoli li ho scritti io, perché tu non ce la facevi più e questo è il segno probabilmente del degrado del giornalismo italiano. Visto che, come giornalista professionista, io di te Giulio non valevo neanche l’unghia del tuo piede sinistro, unghie che per tutta una vita ogni domenica mattina mamma Carla ti tagliava in bagno,in un rito tra il buffo e l’amoroso. Le ricordo sai le improbabili urla di dolore che lanciavi se Carla sbagliava un colpo di forbice. Sembrava ti avessero scannato. Lei, Carla, che è stata da sempre la tua silenziosa segretaria delle cose che si fanno giornalmente e naturalmente nella vita. Cose che tu manco lontanamente sapevi fare: aprire una scatola di carne Simmenthal, farti un caffè, un piatto di riso o togliere il cellophane che ricopriva un libro.
Se tu sei quello che sei stato lo devi anche a lei e alla vostra stupenda storia d’amore durata quasi sessananni. Perché Giulio vedi, leggere un libro al giorno ti aveva sviluppato la mente come un body builder che prende gli steroidi. Il muscolo del tuo cervello era sviluppato a dismisura ma le camicie stirate e profumate che portavi, i pantaloni sempre con la piega giusta, il cibo che mangiavi, le scarpe nere sempre ben lucidate insomma, tutti questi particolari per niente insignificanti della tua vita te li ha sempre dipinti addosso mamma Carla, senza di lei ti saresti perso, anche in casa tua. E infatti, quando non c’è più stata lei, ti sei perso tra la camera da letto e il corridoio della tua casa di via Mussi 4 a Milano e non hai più ritrovato la strada. Smarrito nel deserto della realtà e della solitudine, protetto solo dai cieli della parola e della poesia, che per te erano il Lexotan dell’anima.
Di quella notte ricordo anche tutte le operazioni di rito, il prete del paese don Ulisse che venne a darti l’estrema unzione. L’uomo delle pompe funebri arrivò nel giro di un’ora con il book delle bare da scegliere (non l’ho sfogliato e gli ho detto solo che volevo la più bella), qualche telefonata ai tuoi amici per dire che non c’eri più. Qualche viso che non ricordo del paese, manco mi ricordo se erano dei parenti o degli amici.
Ti hanno vestito in giacca e cravatta e messo nella tua stanza da letto, ho chiesto e ottenuto che se ne andassero fuori dalle balle tutti per poter stare solo con te e quello che dirò adesso è originalmente banale: sarà stato uno scherzo delle candele o di quei controluce che solo in certi momenti della vita invadono i tuoi occhi, sarà stata la voglia di poterti parlare ancora un po’ o la consapevolezza che la tua sofferenza era finita, ma io ho guardato il tuo viso ed era sereno. Avevi riacquistato quella dignità di uomo e quella dolcezza che da tempo erano state cancellate dai graffi della malattia. Eri tornato finalmente elegante. La fede di Carla al dito. E un bruttissimo orologio nero che ti avevo regalato io che però tu tenevi perche dicevi che riuscivi a leggere le ore bene. Tutta la notte con te. Non una notte di preghiera ma un silenzioso dialogo fatto di frasi ordinatamente sconclusionate. Nella tua immobilità si muoveva tutto il carro della vita. Continuavo ad accarezzarti i capelli, ben pettinati, come piaceva a te. Tu odiavi che ti toccassero i capelli, cosa che ho ereditato. Ma in quel momento eri mio, solo mio e non la smettevo di lisciarteli. Caro, caro Giulio “el me Giulio” come ti chiamava Carla, sapevo che erano gli ultimi momenti che avrei visto il tuo viso e li ho bevuti tutti in un sorso, come un bicchiere di acqua fresca in quelle giornate d’estate, quando la sete e cicale la fanno da padrone. Di là nelle altre stanze sentivo il bisbigliare di tante voci (chissà perché quando uno muore la gente parla piano, tanto lui non sente più niente).
Sicuramente si programmavano i cosiddetti particolari del funerale o qualche ricordo di te usciva dalla bocca di qualcuno. La burocrazia della morte. E mentre ti dicevo addio, anzi scusami Giulio, mentre ti dicevo arrivederci ero combattuto tra la voglia di distruggere la casa a calci e l’improbabile sogno di poter rivivere i miei momenti con te grazie ad una invisibile moviola. Non so quante ore sono stato lì. Penso fino all’alba. E ti diro’ Giulio, non vedevo l’ora che il funerale, le condoglianze e riti vari di quando una persona se ne va finissero il più in fretta possibile.
Ti ricordi al funerale della mamma quando mi sussurrasti all’orecchio: “ma quanto la fa lunga questo prete la predica”?. Ricordo che mi misi a ridere, e pure tu. Purtroppo il prete la fece lunghissima e tu, com’era da tuo carattere, non mascheravi (per chi ti conosce bene)  evidenti segni di insofferenza.
Dopo due giorni,alle dieci di mattina, c’è stato il tuo funerale, la chiesa non era per niente piena (ma su questo discorso ci torneremo dopo). Comunque vergognosa l’assenza di alcune persone delle quali neanche cito i nomi perché non voglio che sporchino le pagine di questo libro. Non ti ho seguito al cimitero. Me ne sono andato a casa a rileggere i telegrammi di condoglianze. Quelli erano tanti, sì. Amici, colleghi, gente del paese, amici miei, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La casa era invasa da giornalisti e troupes televisive. Fotografavano tutto. Una zelante cronista di una rete locale ricordo che mi fece la geniale domanda: “Suo padre ha lasciato un vuoto dentro di lei?”. Giulio credimi, non ho seguito il mio istinto, che tu non amavi, di spararle direttamente nel microfono un sonoro “vaffa”, ho risposto le più banali banalità. Un fotografo mi chiese di mettermi in posa con la tua foto in mano,non l’ho fatto. Alle ore dodici e qualche cosa tutto era finito. 

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