L’UOMO DELLE LUCI
Biografia
di Giulio Nascimbeni raccontata dal figlio
1°
CAPITOLO
ADDIO
GIULIO
Tre le cose che mi sono venute in mente alle nove di sera
del 28 gennaio 2008 quando Giulio se ne andò. Che le foglie che cadono
lentamente dagli alberi per cedere all’autunno, a volte sono più belle dei
fiori. Che pensavo di avere conosciuto ie viaggiato le vie del dolore, invece
nemmeno immaginavo cosa fosse. E che una volta i muri di quel salotto
dell’antica casa di Sanguinetto avevano una tappezzeria di carta a fiori
strappata malamente da mani innovatrici e senza amore.
Giulio Nascimbeni che per tutto questo libro chiamerò
Giulio, se ne andava così: chiedendomi, con quel filo di voce e di ragione che
gli erano ancora rimasti, una boccata della mia sigaretta. Diede una tirata,
strinse la mia mano, chiuse gli occhi e raggiunse mamma Carla, morta nel 2000
dopo breve malattia .Da quel momento Giulio cominciò a morire con lei.
Cosa ho pensato? Come tutti i figli del mondo che non
avrei più sentito la sua voce. Che non avrei più visto la dolcezza dei suoi
occhi. Che rimanevo solo. Più ufficialmente parlando, che in una antica casa
(la sua e della nostra famiglia) se ne andava uno dei più grandi giornalisti
italiani, chiamato”il Signore della Terza Pagina” del Corriere della Sera,
l’uomo che senza clamore, senza apparire troppo, sempre a lato della cultura,
osservatore silenzioso della bellezza della parola e della poesia diceva addio
al mondo, un po’ dimenticato da tutti quelli che a lui dovevano tanto, ai quali
aveva dato tanto senza chiedere nulla in cambio.
Me ne sono andato nel mio studio.
Non ero disperato, di più. Ero inseguito da un’orda di
ricordi e lacrime. Quei miei deliri che a Giulio non piacevano tanto mi
portarono a immaginare che in quel preciso istante tutti i suoi libri si
fossero messi a piangere, che un’invisibile polvere li ricoprisse per sempre,
che i ragni cominciassero a tessere tele sulla copertina di un volume di Borges
o su un qualunque dizionario (Giulio era uno di quelli che il dizionario lo
leggeva sempre quando scriveva un articolo perché non aveva mai certezze ma
dubbi e curiosità). Ho immaginato anche che non poteva finire così, e che in
quel momento aveva finalmente potuto riabbracciare la mamma, in un per sempre
ripetuto all’infinito. Tre anni prima, scivolando banalmente nella sua casa di
Milano, si era rotto il femore. L’operazione era perfettamente riuscita, il
professore che lo operò mi disse che Giulio sarebbe tornato a camminare ma che
da quel momento in poi, per una legge che non sta scritta ma purtroppo è vera,
sarebbe iniziato il lento degrado della sua mente, e così è andata, fino ad
arrivare al punto che la mente di Giulio oramai si era chiusa a qualsiasi
contatto esterno. Non parlava più con nessuno. Non mangiava piu’. Tutte le notti gridava e chiedeva “aiuto”. E
tutti i giorni mi chiedeva di lasciarlo morire in pace, perché non sopportava
di non poter più leggere, di non poter più scrivere, di non poter più essere un
uomo autonomo. Per dirla in breve Giulio si è lasciato morire. Il lento
suicidio di un uomo che, se avesse potuto prendere a bastonate la badante
georgiana, lo avrebbe fatto.
Gli ultimi articoli che aveva scritto con la sua Olivetti
rossa, per il giornaletto del paese, risalivano a qualche mese prima, l’ultimo era stato su Mario
Rigoni Stern e un altro su Carlo Rossi, suo amico di sempre. Carlo lo aveva
preceduto solo di qualche mese nel dare un calcio alla vita. Articoli che
vennero pubblicamente elogiati: “Lui sì che sa ancora scrivere grandi cose, con
grande semplicità”. Ma questa è una biografia sincera e, caro Giulio, io e te
sappiamo, a costo di apparire sgradevole, che quegli articoli li ho scritti io,
perché tu non ce la facevi più e questo è il segno probabilmente del degrado del
giornalismo italiano. Visto che, come giornalista professionista, io di te
Giulio non valevo neanche l’unghia del tuo piede sinistro, unghie che per tutta
una vita ogni domenica mattina mamma Carla ti tagliava in bagno,in un rito tra
il buffo e l’amoroso. Le ricordo sai le improbabili urla di dolore che lanciavi
se Carla sbagliava un colpo di forbice. Sembrava ti avessero scannato. Lei,
Carla, che è stata da sempre la tua silenziosa segretaria delle cose che si
fanno giornalmente e naturalmente nella vita. Cose che tu manco lontanamente
sapevi fare: aprire una scatola di carne Simmenthal, farti un caffè, un piatto
di riso o togliere il cellophane che ricopriva un libro.
Se tu sei quello che sei stato lo devi anche a lei e alla
vostra stupenda storia d’amore durata quasi sessananni. Perché Giulio vedi,
leggere un libro al giorno ti aveva sviluppato la mente come un body builder
che prende gli steroidi. Il muscolo del tuo cervello era sviluppato a dismisura
ma le camicie stirate e profumate che portavi, i pantaloni sempre con la piega
giusta, il cibo che mangiavi, le scarpe nere sempre ben lucidate insomma, tutti
questi particolari per niente insignificanti della tua vita te li ha sempre
dipinti addosso mamma Carla, senza di lei ti saresti perso, anche in casa tua.
E infatti, quando non c’è più stata lei, ti sei perso tra la camera da letto e
il corridoio della tua casa di via Mussi 4 a Milano e non hai più ritrovato la strada.
Smarrito nel deserto della realtà e della solitudine, protetto solo dai cieli
della parola e della poesia, che per te erano il Lexotan dell’anima.
Di quella notte ricordo anche tutte le operazioni di
rito, il prete del paese don Ulisse che venne a darti l’estrema unzione. L’uomo
delle pompe funebri arrivò nel giro di un’ora con il book delle bare da
scegliere (non l’ho sfogliato e gli ho detto solo che volevo la più bella),
qualche telefonata ai tuoi amici per dire che non c’eri più. Qualche viso che
non ricordo del paese, manco mi ricordo se erano dei parenti o degli amici.
Ti hanno vestito in giacca e cravatta e messo nella tua
stanza da letto, ho chiesto e ottenuto che se ne andassero fuori dalle balle
tutti per poter stare solo con te e quello che dirò adesso è originalmente
banale: sarà stato uno scherzo delle candele o di quei controluce che solo in
certi momenti della vita invadono i tuoi occhi, sarà stata la voglia di poterti
parlare ancora un po’ o la consapevolezza che la tua sofferenza era finita, ma
io ho guardato il tuo viso ed era sereno. Avevi riacquistato quella dignità di
uomo e quella dolcezza che da tempo erano state cancellate dai graffi della
malattia. Eri tornato finalmente elegante. La fede di Carla al dito. E un
bruttissimo orologio nero che ti avevo regalato io che però tu tenevi perche
dicevi che riuscivi a leggere le ore bene. Tutta la notte con te. Non una notte
di preghiera ma un silenzioso dialogo fatto di frasi ordinatamente
sconclusionate. Nella tua immobilità si muoveva tutto il carro della vita.
Continuavo ad accarezzarti i capelli, ben pettinati, come piaceva a te. Tu
odiavi che ti toccassero i capelli, cosa che ho ereditato. Ma in quel momento
eri mio, solo mio e non la smettevo di lisciarteli. Caro, caro Giulio “el me
Giulio” come ti chiamava Carla, sapevo che erano gli ultimi momenti che avrei
visto il tuo viso e li ho bevuti tutti in un sorso, come un bicchiere di acqua
fresca in quelle giornate d’estate, quando la sete e cicale la fanno da
padrone. Di là nelle altre stanze sentivo il bisbigliare di tante voci (chissà
perché quando uno muore la gente parla piano, tanto lui non sente più niente).
Sicuramente si programmavano i cosiddetti particolari del
funerale o qualche ricordo di te usciva dalla bocca di qualcuno. La burocrazia
della morte. E mentre ti dicevo addio, anzi scusami Giulio, mentre ti dicevo
arrivederci ero combattuto tra la voglia di distruggere la casa a calci e
l’improbabile sogno di poter rivivere i miei momenti con te grazie ad una
invisibile moviola. Non so quante ore sono stato lì. Penso fino all’alba. E ti
diro’ Giulio, non vedevo l’ora che il funerale, le condoglianze e riti vari di
quando una persona se ne va finissero il più in fretta possibile.
Ti ricordi al funerale della mamma quando mi sussurrasti
all’orecchio: “ma quanto la fa lunga questo prete la predica”?. Ricordo che mi
misi a ridere, e pure tu. Purtroppo il prete la fece lunghissima e tu, com’era
da tuo carattere, non mascheravi (per chi ti conosce bene) evidenti segni di insofferenza.
Dopo due
giorni,alle dieci di mattina, c’è stato il tuo funerale, la chiesa non era per
niente piena (ma su questo discorso ci torneremo dopo). Comunque vergognosa
l’assenza di alcune persone delle quali neanche cito i nomi perché non voglio
che sporchino le pagine di questo libro. Non ti ho seguito al cimitero. Me ne
sono andato a casa a rileggere i telegrammi di condoglianze. Quelli erano
tanti, sì. Amici, colleghi, gente del paese, amici miei, il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. La casa era invasa da giornalisti e troupes
televisive. Fotografavano tutto. Una zelante cronista di una rete locale
ricordo che mi fece la geniale domanda: “Suo padre ha lasciato un vuoto dentro
di lei?”. Giulio credimi, non ho seguito il mio istinto, che tu non amavi, di
spararle direttamente nel microfono un sonoro “vaffa”, ho risposto le più banali
banalità. Un fotografo mi chiese di mettermi in posa con la tua foto in
mano,non l’ho fatto. Alle ore dodici e qualche cosa tutto era finito.
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